GROSSETO – Era il settembre 2010 quando a Roccalbegna, in provincia di Grosseto, iniziò una catena di avvelenamenti che – in un sinistro tam tam di morte – portò al decesso prima (il 30 settembre) due cani da pastore, poi (il 6 novembre) un setter e infine (il 21 novembre) due cuccioli di pastore maremmano di nemmeno 40 giorni di vita e per di più custoditi in un recinto. Le indagini, condotte col supporto dei laboratori dell’Istituto Zooprofilattico di Rieti, portarono a individuare come sospetto Aldo Zamperini, 45 anni, allevatore di Roccalbegna abitante a Montorgiali. E’ lui oggi a processo al Tribunale di Grosseto con l’accusa di avere confezionato e poi somministrato ai cani di proprietari differenti bocconi mortali realizzati con budella di agnello e contenenti stricnina talvolta con l’aggiunta di metaldeide.
Malgrado il processo si sia aperto, alcuni aspetti del giallo rimangono controversi e se ne riparlerà nella prossima udienza fissata a fine febbraio 2016. Intanto, però, gli inquirenti hanno condotto un’investigazione da far impallidire CSI. Fin dagli esiti delle prime analisi scientifiche il sostituto procuratore Salvatore Ferraro aveva ipotizzato che solo chi aveva un allevamento ovino poteva avere la disponibilità di interiora fresche con cui confezionare le esche. Così, aveva disposto perquisizioni mirate in tre allevamenti per cercare i riscontri di compatibilità con il dna ricavato dai reperti sotto sequestro. A seguito di queste analisi l’Istituto Zooprofilattico aveva rilevato una parentela di secondo-terzo grado tra gli ovini cui appartenevano le budella utilizzate per le esche avvelenate e i tre arieti di proprietà di Zamperini, nonché una parentela di secondo-terzo e quarto grado tra le esche e sette pecore di quello stesso allevamento. Nessun altro collegamento era stato invece rilevato con gli esemplari degli altri due allevamenti perquisiti. Così era stato disposto il rinvio a giudizio di Zamperini per l’uccisione di quegli animali.
Ma il difensore dell’allevatore, l’avvocato Claudio Ciri, ha incaricato un proprio esperto, il genetista Gustavo Caldora: questi ha sostenuto che i risultati sono carenti di dati e soprattutto che gli esami non sono ripetibili poiché i campioni sono stati distrutti. Così il giudice Giovanni Puliatti ha incaricato un perito, la dottoressa Elena Pilli, perché venga fatta luce sul caso. L’esperta potrà solo dare risposte sule metodologie seguite dagli esperti di parte, poiché i campioni non sono più disponibili. E sono mancanti gli elettroferogrammi, da cui si può individuare la compatibilità. I risultati alla prossima udienza.